lunedì 4 marzo 2013

Gianni Vattimo: Addio alla Verità. Oltre la Metafisica oggettivante.


A cura di Danilo Serra
La speculazione filosofica dell’italiano Gianni Vattimo prende spunto dalla personale interpretazione ermeneutica condotta minuziosamente sui testi di due pedine fondamentali e fondanti della Storia della Filosofia contemporanea, Nietzsche e Martin Heidegger, due autori aventi il merito di aver paradossalmente ricondotto il suo vissuto verso un Cristianesimo ritrovato, un Cristianesimo non più religioso e “istituzionalizzante”.

Nietzsche è l’autore che ne ‘La gaia scienza’ (Die fröhliche Wissenschaft) non ha avuto alcun timore e tremore nel fare pronunciare ad un interessante personaggio la morte di Dio, “Dio è morto!” [Gott ist to!]. Heidegger, soprattutto il “secondo” Heidegger, quello della svolta (la chère) come si usa dire, ha combattuto filosoficamente contro un pensiero metafisico onto-teologico, colpevole di aver miseramente taciuto ed obliato l’Essere, ciò che in termini heideggeriani viene a configurarsi come il più pre-occupante (ein Bedenkliches), ciò che ci (uns, a noi) pre-occupa e ci coinvolge prima di ogni altra cosa.
Nietzsche e Heidegger sono dunque in Vattimo protagonisti di una battaglia dialettica che impreca ed invoca l’Addio alla Verità (non a caso ‘Addio alla Verità‘ [2009] è  anche il titolo di una delle opere recenti di Gianni Vattimo). In loro, il dibattito filosofico ha almeno un punto di convergenza: non si da alcuna fondazione ultima e normativa. E’ questo il senso di quella che Vattimo definisce l’epoca del pensiero debole, epoca nella quale la Filosofia diviene s-fondamento, “fare vedere che non c’è nulla di veramente fondato”. Tutto è accadimento, orizzonte di senso, caducità storico-temporale.
La debolezza del pensiero [debole] consiste nel suo non essere più in grado di rispondere fermamente alla domanda di leibnieziana memoria: perché [esiste] qualcosa anziché niente? Di cosa possiamo affermare con evidenza di essere certi?

<<Di tutto ciò di cui non si può parlare si deve tacere.>> Con questa ambigua proposizione Wittgenstein de-terminava il suo Tractatus Logico-Philosophicus, l’unico testo da lui pubblicato in vita.

L’addio alla Verità si compie in maniera silenziosa. Dinanzi alle grandi meditazioni metafisiche il velato protagonista è solo il silenzio.

Possiamo ancora parlare di Verità nell’epoca dell’incertezza e dell’abbandono della ricerca de-finitiva di un fundamentum inconcussum?

Karl Popper, filosofo ed epistemologo austriaco, ha mostrato a tutti come sia piuttosto illusorio cercare fondamenti anche nella scienza.

Abbiamo creduto che tutti i cigni fossero bianchi finchè non abbiamo visto con i nostri occhi i cigni neri d’Australia. Non è possibile dimostrare vera, assolutamente vera, qualsiasi teoria; mentre è logicamente possibile smentire, a suo di fatti contrari, una teoria. Non possiamo verificare (farla vera) una teoria, ma ci è possibile falsi-ficarla (farla falsa). Insomma, la dimensione del fallibilismo e dell’errore (produttivo) abitano il piano scientifico, ciò che un tempo, nei termini di pensiero positivo, veniva universalmente concepito con la perentoria nomea di ‘campo di conoscenze assolute e sempre vere’.

L’unico punto pressoché certo nel naufragio è il punto interrogativo”, sottolinea lo scrittore e poeta libanese Salah Stétié. Siamo certi di vivere nell’incertezza, nella debolezza, nella non-assolutezza, nella limitatezza. E questa è stata la più grande conquista della prima vera rivoluzione scientifica del secolo scorso, revolutio che ha smembrato, tra le altre cose, la validità suprema del principio deterministico, rivelando, ad esempio, i limiti degli assiomi dell’identità della logica classica e i limiti propri della conoscenza umana.
Riagganciandoci al tema esposto in principio, possiamo in Vattimo parlare di verità solamente nei termini di ‘senso’ [orizzonte di senso], del senso che un dato ha entro un pro-getto; un senso (a noi e per noi) che di-viene un ‘porre’, un ‘determinare’, ‘ciò che noi ‘mettiamo’ alle cose’. Lo stare all’interno di un ambito in-stabile (nulla si da e si concede definitivamente) in cui l’Essere lascia essere, salvaguarda e tutela l’etica della libertà (o etica della debolezza), secondo la quale io sono libero in quanto libero di im-porre un senso. Se c’è una realtà oggettiva, Vera, assoluta, io non sono libero, poiché non sono libero di esibire le mie argomentazioni e di pro-gettarmi esserCi attivo e pensante.

L’addio alla Verità vuole dunque essere l’addio ad uno sguardo unilaterale, l’addio alla repressione. La verità è sempre accompagnata dalla violenza. Ad esempio, evidenzia Vattimo, il mondo cattolico, affermando le verità naturali della Famiglia (unione ‘naturale’ di uomo e donna) attua una lotta repressiva nei confronti dei diritti omosessuali. Il richiamarsi ad una Verità fissa, stabile, determinata, porta così alla repressione/violenza.

L’addio alla verità implica l’impossibilità di pensare l’Essere metafisicamente inteso: fissità, fermezza, fondamento, Sub-jectum stabile. Nell’epoca della post-modernità, epoca della post-metafisica, l’Essere può essere pensato solo e semplicemente come invio, trasmissione, destino (ciò che destina, che fa essere), evento,Ereignis’, così come ha insegnato l’intera tradizione fenomenologica husserliana.

<<Un Dio “diverso” dall’essere metafisico non può più essere il Dio della verità definitiva e assoluta che non ammette alcuna diversità dottrinale. Per questo lo si può chiamare un Dio “relativista”. Un “Dio debole”, se si vuole, che non svela la nostra debolezza per affermarsi a propria volta come luminoso, onnipotente sovrano, tremendo, secondo i tratti propri del personaggio (minaccioso e rassicurante) della religiosità naturale-metafisica.>>

Così parlò Vattimo in una delle pagine più profonde ed incisive del suo ‘Addio alla Verità’.

Il Dio della post-metafisica è il Dio del Libro, il Dio del Vangelo, il Dio della Non-Religione. Il Cristianesimo non religioso è il Cristianesimo dell’intimità, della singolarità, dell’interpretazione [orizzonte di senso], del silenzio, in antitesi al Dotto Cristianesimo istituzionalizzante. Richiamandosi alle dimensioni interiori e soggettive, ‘In interiore homine habitat veritas’, il Logos cristiano distrugge ogni Assoluto Terrestre ed ogni Metafisica oggettivante e tecnicizzante.
L’Incarnazione, il senso stesso del Cristianesimo, è l’idea di un Dio che rinuncia alla sua forza suprema, al sua carattere imperativo ed imperante, facendosi debole tra i deboli, umile tra gli umili. Il Dio relativista e debole è il Dio che rinuncia alla sua Onnipotenza. E’ un Dio che si incarna, che si ossifica, che si materializza, che si svuota. Questo è il destino della metafisica, l’Oltre della metafisica stessa, la Kenosis [vacuità] in quanto svuotamento, Evento (Ereignis) storico, essenza del Cristianesimo Anti-Metafisico.
<<L’idea della kenosis, che per i cristiani è il senso stesso dell’incarnazione ed è dunque al centro della storia della salvezza, si impone dal punto di vista del destino della metafisica (…). Vista in questa luce, la kenosis che è il senso stesso del cristianesimo significa che la salvezza consiste anzitutto nel rompere l’identità tra Dio e l’ordine del mondo reale; in definitiva, nel distinguere Dio dall’essere (metafisico) inteso come oggettività, razionalità necessaria, fondamento. >> (Gianni Vattimo, Addio alla Verità, 2009).

Il processo di costruzione e di sviluppo dell’identità personale tra dimensioni familiari e scolastiche: il ruolo della comunicazione.


A cura di Danilo Serra
<<Io che è Noi, Noi che è Io>>. La frase in questione fu elaborata e partorita nella sua Fenomenologia dello Spirito (1807) da uno dei più imponenti esponenti filosofici di tutti i tempi, Friedrich Hegel. Fuori dalla relazionalità (rapporto Io-Noi) siamo solo mera astrazione, ovvero più semplicemente “non siamo”.
Comunicazione
Il ruolo della “comunicazione”
Nel processo di costruzione della propria identità personale il ruolo giocato dalla comunicazione appare essere vitale.
La radice etimologica del verbo comunicare rievoca mentalmente il latino “cum munus”, quest’ultimo in grado di imprimere l’accento sull’attuarsi concreto di un’azione comune. Il “Cum munus” è inteso infatti come un metaforico scambio reciproco di doni e di cibo, uno scambio salutare e necessario.
[Non è un caso se dal “cum munus” preleviamo naturalmente il termine “communitas”.]
Come è possibile a tal punto comprendere il senso di ciò che nutre e rende attivo l’essere umano? Cosa intendiamo quando abbiamo a che fare con l’atto del comunicare? Cosa è comunicare? E cosa comunicazione?
Comunicare è in primo luogo con-frontarsi. Tale dimensione, il confronto, implica il naturale persistere di una esperienza intersoggettiva che spinge l’attore sociale a relazionarsi e connettersi socialmente, con-frontandosi fronte a fronte. Ciò produce e procura l’attivarsi di una capacità fondamentale nell’essenza stessa della relazione, la capacità di ascolto. L’ascolto non può mai trascendere dall’atteggiamento della cura. Ascoltare significa seguire l’altro, prendersene cura, averne cura, proteggerlo. Tutto ciò non può esistere in assenza dell’elemento ricomprendente della fiducia. Esso ristagna docilmente all’interno di un’orbita comunicativa, presentandosi in primis come un fi-dare, dare fede.
La comunicazione (il confronto, l’ascolto, la cura, la fiducia) è dunque l’Anima esistenziale di una qualunque attività relazionale, distruttrice del singolo Io e Saggia amante dell’universale Noi. Ed è proprio questo Noi che spicca ed emana luce incandescente in due luoghi sociali come la famiglia e la scuola, aventi l’innato obiettivo pedagogico di innalzare e far crescere l’individuo umano in un contesto ambientale che, attraverso lo sguardo, il duello dialettico, l’esercizio del dubbio, possa a lui garantire la piena cittadinanza ed il pieno sentirsi parte attiva di un vero e vivo gioco sociale, mirando e contemplando all’armonia inscindibile ed inesauribile del tutto. Insomma, per dirla con l’Aristotele della Politica, <<chi è fuori dalla socialità o è una bestia o una divinità.>>
Nell’epoca dell’automazione dei processi tecnologici l’esist-ente, specie in un contesto scolastico, si è spogliato della propria veste umana, divenendo stabilmente un semplice ente, un numero effimero e sil-ente. La persona [lo studente] si è matematizzata/enticizzata, frutto di un degrado nichilistico che ha portato ad un drastico allontanamento dal senso puro e concreto del termine Scuola (dal greco scholè, il luogo dove veniva consumato l’otium, in contrapposizione al negotium romanamente inteso come “tempo della fatica lavorativa”). L’Io diviene matricola; lo Spirito si è materializzato. Il giudizio rap-presentante del docente non tiene conto delle passioni, degli stati d’animo, delle pure sensazioni dell’individuo, il quale è costretto ad occuparsi del determinato settore, fagocitato da un insieme incondizionato di nozioni e terminologie acritiche da imparare a memoria. [Che senso ha parlare di “coscienza critica” o di “ars cogitandi”?]
Così, evidentemente, la scuola odierna, nonostante i tanti illuminanti processi di “democratizzazione”, ha inculcato ideali e valori che hanno prodotto, par exemple, il mero innamoramento del risultato finale, annientando di fatto l’intero cammino sapienziale ed il suo esserci. La legge dis-sacrante del profitto imperat…purtroppo!
Ed è qui che nasce e deve nascere l’esigenza di una Rivoluzione, di un conflitto intellettuale che riesca a ri-formare e ri-pensare il pensiero. Un’esigenza che si pone ora più che mai come orexis  [tensione, torsione, desiderio, movimento, azione].
<<Tutti gli uomini tendono per natura al sapere.>> (Aristotele, Metafisica Libro A.)
<<Bisogna armarci intellettualmente per distruggere le barbarie della nostra epoca.>> (Edgar Morin, La testa ben fatta.)
<<La scuola è il luogo di formazione e di educazione mediante lo studio, l’acquisizione di conoscenze e lo sviluppo della coscienza critica.>> (Statuto delle studentesse e degli studenti della Repubblica Italiana, art. 1.comma 1.)